“Quando penso al Koshu come vino, mi vengono in mente due parole. La prima è precisione, come tutto ciò che è giapponese. La seconda è l’eleganza. Sia l’eleganza che la precisione sono legate alla vinificazione stessa.
La parte più importante del terroir è la mano. Il Koshu, paragonabile allo Chardonnay, non è eccessivamente aromatico, il che lo rende una tela bianca per diverse tecniche. È un vitigno con cui si può fare molto”. Queste alcune delle potenzialità e i pregi del vino giapponese, sinora in gran parte misconosciuto dal grande pubblico, secondo la master sommelier Isa Bal. Gli agricoltori giapponesi coltivano l’uva Koshu da secoli, principalmente nella prefettura di Yamanashi. La maggior parte della produzione è destinata all’uva da tavola, ma una piccola percentuale finisce in bottiglia, dando vita a una varietà di vini spumanti, fermi e arancioni. Tuttavia, le esportazioni di vino giapponese affrontano ancora delle sfide ostiche: “Aziende come Suntory e Château Mercian esportano solo una minima parte della loro produzione, con il mercato giapponese come principale destinazione.
Il prezzo è un ostacolo significativo, con vini che partono da 20 sterline a bottiglia nel Regno Unito, riflettendo la scarsezza e l’alto costo della produzione in Giappone”. L’esperta sommelier suggerisce che i grandi produttori potrebbero presto aprire la strada sulla scena vinicola mondiale, mentre i piccoli produttori dovranno saper distinguersi con prodotti più individuali. In generale, il vino giapponese rimane più popolare in patria, dove si abbina bene alla cucina locale. La sfida principale è, quindi, conciliare la qualità con un prezzo competitivo per affermarsi sui mercati internazionali, dove la percezione economica può (come ben sappiamo) influenzare le scelte dei consumatori.