La nostra percezione moderna del vino consumato dai Romani spesso lo ritrae come un prodotto di scarsa qualità, al punto tale da necessitare di mascherare difetti con spezie ed erbe.
Tuttavia, recenti studi sui recipienti di terracotta usati per fermentare il vino, antichi e moderni, sembrerebbero mettere in discussione questa idea. L’uso diffuso di dolia romani, simili ai qvevri georgiani, suggerisce che i vini romani potevano essere competitivi con quelli di alta qualità attuali. “L’importanza dei dolia nella vinificazione romana è stata spesso trascurata – hanno commentato gli storici intervenuti attorno questa querelle archeo-enologica – Queste giare porose permettevano un contatto controllato con l’aria durante la fermentazione, contribuendo a produrre vini con sapori ricchi e aromi complessi.
La forma arrotondata delle giare favoriva la miscelazione del mosto, creando vini più equilibrati, mentre la base stretta impediva il contatto eccessivo con i residui dell’uva”. La fermentazione in giare sepolte nel terreno, inoltre, garantiva una temperatura totalmente stabile, ideale per la fermentazione e la maturazione del vino. Questo ambiente favoriva anche la formazione di lieviti protettivi, come il flor, che conferivano al vino profili aromatici distintivi, simili a quelli dei vini moderni. “I vini romani – hanno poi aggiunto gli studiosi – erano spesso sottoposti a lunghe macerazioni con le parti solide dell’uva, producendo vini di colore ambrato noti come “orange wines”, oggi sempre più popolari. Questi vini, insieme alla presenza del flor, dimostrano la sofisticata comprensione dei Romani delle tecniche di vinificazione”.