Molti cittadini statunitensi che a cavallo degli sfavillanti anni ‘80 attraversavano la propria infanzia e adolescenza, ricorderanno oggi con quell’agrodolce piacere nostalgico moltissimi spot pubblicitari iconici legati al mondo del vino. E ovviamente i jingle musicali annessi. Qualcosa di analogo possiamo aver esperito, e continuar ad esperire, noi italiani con alcuni marchi più “commerciali” e di largo consumo.
Quello che, però, molti americani notano oggi, è un drastico calo di questo roseo immaginario sfruttato ad arte dai media per descrivere l’universo del vino. E, scrutando un poco i dati, hanno pienamente ragione: nel solo 2021 sono stati spesi 122 milioni di dollari per le pubblicità riconducibili al vino, molti meno rispetto alla birra (quasi 900 milioni di dollari), degli alcolici in generale (più di 500 milioni di dollari) e delle bevande a base di malto (più di 300 milioni di dollari). Secondo alcune interviste a esperti del settore pubblicitario: “Quando facciamo marketing oggi, vendiamo ancora in gran parte lunghe giornate calde, notti fresche e terreni speciali. Sapete cosa intendo.
Passiamo il tempo a parlare della data della vendemmia, del pH del vino, dell’acidità e delle date di raccolta. Parliamo del proprietario, del suo background e dei suoi successi, se non addirittura della storia della famiglia. Questo messaggio, nel migliore dei casi, è sprecato per un pubblico giovane; nel peggiore, lo sta allontanando”. La soluzione, in U.S.A. come in molti altri mercati, potrebbe essere, secondo più fronti, un deciso ritorno a quel dolce immaginario di qualche tempo fa: “Verso un’epoca d’oro fatta di capelloni, spalline, scaldamuscoli, aerobica e power ballads sintetizzate, in cui il vino forse ancora non era cool”.