Di primo acchito, superficialmente, le uve provenienti dalle più lontane parti del globo possono anche assomigliarsi. Il più delle volte, come nel raffronto fra uve europee e uve americane, le cantine usano addirittura i medesimi serbatoi d’acciaio inossidabile. Eppure, scavando più in profondità, le distanze aumentano e il divario storico-tecnico inizia a farsi sentire.
Ma quali sono le differenze fra il vino europeo e il comunque rinomato vino californiano? Prendiamo, ad esempio, come “campione” della schiera nostrana il vino prodotto nella regione toscana del Chianti. Innanzitutto, ci troviamo di fronte a una tradizione enologica che risale perlomeno all’VIII secolo a.C., con il popolo etrusco. Inoltre, come hanno giustamente fatto notare alcune testate di wine americane, affinché un vino statunitense riceva il marchio “Napa Valley” gli basterà che le sue uve siano state effettivamente coltivate all’interno della suddetta regione geografica. Mentre lo stesso non si può affermare per un vino come il Chianti.
Quest’ultimo necessiterà, oltre che di uve nate e cresciute in zona, anche di una sequela di rigidi protocolli e via libera prescritti da regole governative. Solo così potrà ottenere il prestigiosissimo marchio. Le normative della tecnica tradizionale sono cambiate di epoca in epoca, adattandosi agli eventi e alle influenze.
Oggigiorno, giusto per citare un esempio, i vini etichettati con la denominazione di qualità più alta, ovvero “Chianti Classico Gran Selezione”, devono essere prodotti con il 90% di Sangiovese, rispetto al consueto 80%, e il restante 10% non potrà assolutamente essere costituito da vitigni internazionali. Abbastanza palese l’obiettivo di questa severità nella denominazione (severità che forse sovente scarseggia oltreoceano): garantire che tutti i Chianti Classico abbiano il sapore del Chianti Classico.