In una giornata invernale del lontano 2004 il signor Uran Pelushi stava facendo una solinga passeggiata lungo le rive del Vivo, torrente della Valle di Seggiano nella Toscana meridionale. S’imbatté in alcune rocce color carbone ricoperte da delle foglie. Ripulita alla bell’e meglio la zona circostante, emersero quelle che sembravano due grossi bacini di pietra intagliata, ciascuno di circa un metro e mezzo, collegati fra loro da un piccolo canaletto.
“Credo di aver trovato una di quelle pietre”, disse immediatamente al telefono al suo capo, l’enologa inglese Charlotte Horton. La Horton, a sua volta, era sulle tracce di queste particolari e antichissime strutture già da due anni: “In quell’anno un agricoltore locale mi aveva fornito alcune informazioni al riguardo: come molti abitanti del luogo aveva qualche vaga nozione sulle vasche, che i locali chiamano pestarole. Si pensava che gli Etruschi avessero scavato pietre vulcaniche per scopi agricoli. Molti ritenevano che venissero usate per abbeverare gli animali, ma a me non ha mai convinto questa ricostruzione”.
Il motivo è semplice: ogni ritrovamento è avvenuto in prossimità di fiumi e corsi d’acqua, gli animali quindi non necessitavano di strutture umane per l’abbeveraggio. Inoltre, l’inclinazione delle pietre, suggeriva che fosse previsto un passaggio di fluidi da un bacino superiore a uno inferiore. “Come enologo – ha aggiunto la Horton – il mio istinto mi ha portato a pensare immediatamente al vino”. Nei due anni seguenti ha addirittura messo in pratica questo istinto, cercando di far rivivere quest’ipotesi delle “pietre di vinificazione”: assieme a dei volontari hanno, di fatti, trasportato uva da vigneti vicini per pestarla a piedi nudi all’interno delle antichissime vasche. L’esperimento fu un successo. Si tratta dunque, con ogni probabilità, della prova archeologica della tecnica etrusca per produrre vino: una tecnica e una passione, tra l’altro, passata in seguito ai Romani e, conseguentemente, al resto del mondo moderno e contemporaneo.