Quanto può incidere il legno della botte sulla qualità finale di un whiskey ricercato? “Davvero molto” è la prevedibile risposta degli esperti. Se, infatti, quest’antica verità è ben consolidata nel mondo del vino, potrebbe risultare come una melodia “poco suonata” alle orecchie dei meno avvezzi al vasto e complicato universo del whisky. Vengono, ad esempio, chiamati whiskey finiti col vino (wine-finished whiskey) quelle particolari varietà di bevanda in cui la tecnica preveda una maturazione finale in una qualsiasi botte che, precedentemente, non fosse adibita al sol whisky.
Sovente, per l’appunto, botti contenenti aromi di vini di qualità. Molte tipologie sono effettivamente eccezionali, già alla sola lettura, come ci ricordano alcuni esperti assaggiatori e recensori: finito in botti di vino rosso della regione Pauillac di Bordeaux, come lo scotch torbato Port Charlotte, il quale in questa maniera riesce ad assumere la vivacità di “cioccolato fondente” e “chipotle affumicato”.
O ancora la segale di Milam & Greene con finitura al Porto, dove la tecnica regala al prodotto finale toni di arachidi e ciliegie secche. Ma qual è il segreto di un abbinamento funzionale? Ne parla, in un recente contributo, Bill Lumsden, direttore della distillazione e della creazione di whisky per la Glenmorangie, pioniere del finishing, a partire dagli anni ’90: “Come per ogni buon abbinamento di vini, capire quali siano i complementi di un whisky è fondamentale per il suo successo. Non mangeresti mai un chili con carne messicano accompagnato contemporaneamente da del curry vindaloo”.