Si parla molto, in ambito enologico, dell’invecchiamento del vino. Se ne parla in maniera informale, fra non addetti ai lavori ed appassionati amatoriali, così come se ne discute a livello tecnico, professionale e scientifico. Lo si fa, tra l’altro, da tanti secoli quanti ne compongono la storia del vino stesso.
Spesso si scade nel colloquiale, non sapendo che la tecnica dell’invecchiamento è un’arma a doppio taglio: al minimo errore, alla minima sbavatura o variazione temporale, e il prodotto non solo non sarà “migliorato”, ma addirittura irrimediabilmente corrotto. Inoltre, non si può procedere all’invecchiamento per tutte le tipologie di vino. Quest’antica regola, a seguito delle continue rivoluzioni nei metodi produttivi moderni, vale oggi ancor di più. Prima dell’introduzione, ad esempio, delle vasche di acciaio inox a temperatura controllata, il 99% di tutti i vini bianchi del mondo raggiungeva il suo apice entro uno o due anni dalla produzione.
Solo gli Champagne d’annata possono oggi effettivamente trarre vantaggio da un invecchiamento attentamente monitorato in cantine antiche. Inoltre, l’uso di nuove botti di rovere più piccole e più igieniche ha ridotto notevolmente la possibilità di contaminazione del legno delle botti più grandi e utilizzate con frequenza. Nonostante tutto molti bianchi giungono sul mercato a distanza di due anni dall’imbottigliamento, ma la tendenza fra i produttori contemporanei è quella d’immettere il prodotto il prima possibile rispetto il passato, quando gli aspri tannini potevano richiedere anni per essere domati e armonizzati a dovere con gli altri elementi. Sembrano, insomma, volgere al termine i tempi in cui le tenute e i collezionisti rinchiudevano i loro tesori di vigna per un decennio o più. Salvo, al limite, conservarne qualche copia “da esposizione” da mostrare ai propri visitatori.