Sangiovese. Un’origine etimologica, e non solo, decisamente latina: deriva da sanguis jovis o sangue di Giove. E come la materia divina da cui il suo stesso nome trae origine, nei primi anni ‘80 italiani ha subito una sorta di miracolosa rinascita e, come araba fenice, è riuscito a risorgere dalle sue ceneri che lo relegavano a uno stereotipo di bassa lega. Una reputazione da poco conto, da caraffa, da trattorie, turistico, da fiaschi coperti di paglia, da bere e dimenticare insomma.
Un cambio d’immagine, però, non del tutto fortuito, ma scientemente ricercato attraverso sapienti tecniche: l’accurata selezione dei cloni e dei siti, l’uso di barrique, l’assemblaggio con varietà internazionali e la ricerca di basse rese. Il Sangiovese, insomma, è ormai uno dei vini di punta toscani. E non solo. Di fatti, da almeno un decennio e mezzo, anche l’India rientra fra i più entusiasti coltivatori di vini Sangiovese. Tutto inizia più o meno nel 2006, quando Yatin Patil, fondatore di Reveilo Wines, ha piantato le prime talee provenienti dall’Italia.
“Abbiamo studiato il clima, le temperature, i terreni e i cicli dei nostri appezzamenti, in base ai quali il nostro enologo italiano ci ha suggerito alcune varietà. Il Sangiovese era una di queste e, dato che era anche tra le mie preferite, dovevamo piantarlo” ha commentato il pioniere del sub-continente indiano. Abbiamo poi il caso dell’avventuroso Alessio Secci, enologo italiano e co-fondatore di Fratelli Vineyards, una realtà che poco tempo dopo (nel 2007) ha deciso di seguire a ruota questo “bizzarro” trend: “Anche se non c’era alcuna certezza di successo, eravamo intenzionati a provarci. Il mio socio di allora ha trovato il terroir di Akluj simile a quello di Montalcino. Si trova a 650 metri di altitudine, senza l’influenza dell’oceano, con condizioni pedoclimatiche identiche. Il Sangiovese sopporta il calore ed è resistente all’acqua, il che va bene per i nostri vigneti”.