Con l’epidemica diffusione a tappeto della ristorazione di stampo asiatico, primariamente cinese o giapponese (ma nei grossi centri abitati avente anche sfumature provenienti da Paesi più “di nicchia”), si sente parlare con sempre maggior frequenza anche di alcolici come il sakè. Non si tratta di una tipologia nuova nemmeno per le nostre rubriche.
Eppure, come purtroppo accade spesso, il termine e il prodotto a cui è riferito in Occidente si trascinano dietro un nugolo di interpretazioni erronee e di stereotipi. Molte le iniziative volte a contrastare la cattiva informazione e accreditare i giusti meriti a una delle più apprezzare bevande giapponesi, considerata dagli stessi “bevanda degli dèi”. Abbiamo, giusto per far un esempio, il caso del francese Youlin Ly: fondatore de La Maison du Sakè di Parigi, detentore del titolo di “Sakè Samurai” e iniziatore della fortunata rassegna del Sakè Nouveau.
L’evento torna a Parigi proprio a cavallo di aprile e maggio, un’iniziativa volta ad approfondire meglio la conoscenza attorno questo alcolico. “Forse è il caso di fare chiarezza sul nome del sakè, che in Francia viene erroneamente considerato un’acquavite. – spiega il capo sommelier Xavier Thuizat – Il sakè giapponese è in realtà una birra di riso che si beve come un vino. Il sakè soffre di un’immagine distorta di digestivo molto forte servito alla fine dei pasti nei ristoranti cinesi, ma non è solo questo”. Orgoglioso della sua bevanda nazionale, il Giappone ha presentato domanda per il riconoscimento delle “tecniche tradizionali di produzione del sakè giapponese” come patrimonio culturale immateriale da parte dell’UNESCO nel 2022. La decisione del comitato di selezione sarà nota nel 2024.