Le etichette sulle nostre bottiglie di vino, così come quelle presenti su un’infinità di altri prodotti quotidiani, sono spesso ricolme di parole complicate (per la maggior parte di noi) e delle volte addirittura spaventose. Una recente indagine americana ha cercato di svelare quali siano gli elementi che, a torto o ragione, possono spaventare di più i consumatori e quali, invece, avrebbero più piacere che venissero riportati.
La ricerca, realizzata da Wine Market Council, è stata svolta su più di mille soggetti: in parte bevitori basici (più di una volta a settimana) e in parte bevitori morigerati (meno di una volta a settimana); per il 60% donne e per la metà laureati; un terzo in età giovane, un terzo di mezz’età e un terzo oltre i 60 anni. Secondo i dati emersi spaventano molto (sovente senza ragione apparente), qui come in altri settori alimentari, i nomi di origine chimica: oltre il 50% degli intervistati, ad esempio, ritiene che l’anidride solforosa sia un ingrediente negativo, mentre nomi “non chimici” come “concentrato d’uva” portano a casa un 61% di pareri positivi. Paradossalmente, sempre per questioni di fobie etimologiche, solamente il 13% dei campioni ha considerato i “tannini di quercia” come qualcosa di sgradito, nonostante derivino perlopiù da residui aggiunti dai serbatoi.
Tutti concordi poi, per convinzioni probabilmente derivanti da correnti salutiste, sull’importanza di riportare sulle etichette un eventuale basso contenuto di zuccheri. Molti americani, infine, sempre per un’evidente percezione distorta, sono convinti che il vino sia ricco di zuccheri aggiunti, in percentuali molto più elevate rispetto ad altre bevande. Tutti questi dati potrebbero tornare molto utili, in un’ottica di rivisitazione di standard e regolamentazioni su cosa riportare sulle nostre bottiglie e perfino sul come riportalo.