Vitis vinifera o uva europea. Un nome latino, un passato ampiamente latino. Duemila anni fa, nel Lazio così come in tutti i territori man mano soggetti all’autorità romana, la vite d’uva era diffusissima e apprezzatissima, dagli imperatori come dalla plebe. Paradossalmente i vini di alta qualità che possiamo sorseggiare oggigiorno differiscono in maniera sostanziale dai loro antichi progenitori gustati dai patrizi della Roma che fu. Recentemente, per fortuna, tre vitigni autoctoni e storici stanno cercando di recuperare fedelmente, attraverso un minuzioso intervento di ricerca tanto enologica quanto storica, varietà assopite da secoli.
La prima di queste varietà riportate in auge è il Bellone. Si tratta di un’antica varietà di uva bianca, la medesima che lo storico Plinio il Vecchio chiamava “pane d’uva”: gli storici sono incerti se perché buona come il pane o perché ottimale se accompagnata dal pane. Gli aromi del suddetto vino ricalcano sentori di erbe, frutti tropicali e, appunto, pane tostato.
Vi è poi il Nero Buono, vitigno nero-rosso che cresce quasi esclusivamente sui terreni vulcanici dei Monte Lepini. Su 91,5 degli ettari laziali messi a coltivazione, ben 90 si trovano nel comune di Cori. La cittadina beneficia di brezze marine così come dell’umidità della nebbia, rendendo le sue terre un ambiente ideale per una varietà d’uva altrimenti molto difficile da coltivare. I sapori di questo vino ricordano frutta a buccia scura, rabarbaro e pepe nero. Vi è, infine, il Cesanese, a sua volta suddiviso in Cesanese Comune e Cesanese di Affile. Vino dai riflessi di rubino che al palato rimanda al gusto dei frutti di bosco a buccia scura, alle erbe aromatiche, al cedro e alle spezie.